lunedì 5 marzo 2012

Reintegrati! A questo serve l’articolo 18


La sentenza della Corte d’Appello di Potenza che ordina il reintegro dei tre operai della Fiat di Melfi licenziati nel 2010 per aver bloccato un carrello nel corso di uno sciopero interno è un raggio di luce in un’oscurità che in Italia diventa di giorno in giorno più fonda.
La Corte ha accolto il ricorso della Fiom, ribaltato la sentenza che, il 14 luglio scorso, aveva dato ragione all’azienda , confermato il giudizio emesso poche settimane dopo il licenziamento dal giudice del lavoro: la Fiat era colpevole di “comportamento antisindacale”.
E’ questa la formula giuridica, ma in questo caso appare troppo blanda. Non rende ragione di quel che sta avvenendo con la tacita complicità di tutti o quasi negli stabilimenti Fiat: parlare di discriminazione e tirannia sarebbe più preciso. Per trovare traccia di qualcosa di simile bisogna arretrare, tutti i sensi, di almeno sei decenni, sino agli anni ’50, gli “anni bui” dei licenziamenti politici in massa, dei reparti confino, della persecuzione contro la Fiom.

Ora come in quel passato che credevamo archiviato per sempre nel mirino c’è la Fiom e ci sono tutti quei lavoratori che non piegano la schiena, resistono al ricatto, rivendicano i loro diritti. I licenziamenti dell’estate 2010 sono stati l’antipasto, la mossa iniziale che apre la strada all’attacco su ben più vasta scala.
Da allora la Fiom, pur essendo il sindacato più forte, è stata messa fuori dagli stabilimenti Fiat in base alla clausola contrattuale che riconosce solo i sindacati che firmano gli accordi. E’ una norma che fa a pugni con la Costituzione e insulta la democrazia eppure tutti fanno finta di non accorgersene e permettono a Sergio Marchionne di fare a pezzi il poco che resta della civiltà del lavoro in Italia. A Pomigliano di 600 operai iscritti alla Fiom nemmeno uno è stato riassunto. Ma tranne noi, la Fiom, la Cgil e pochissimi altri nessuno è insorto, nessuno ha ravvisato gli estremi di comportamento antisindacale nella pulizia etnica operata dalla Fiat.
Il prossimo passaggio è la soppressione dell’art. 18. Sul piano pratico non serve a niente, non crea nessun nuovo posto di lavoro, non incentiva alcun investimento straniero, checché ne racconti Mario Monti. Sul piano ideologico e simbolico, in compenso legittimerà e incentiverà ulteriormente la furia discriminatoria che già colpisce la Fiom e i diritti del lavoro.
La sentenza di oggi incrina questa turpe catena. Dimostra nei fatti a cosa serva l’art. 18. Mette a nudo l’anima feroce delle relazioni sindacali secondo Sergio Marchionne. Indica che ottenere giustizia e rivendicare legittimi diritti è ancora possibile. Restituisce speranza e fiducia.
I tre operai di Melfi devono rientrare in fabbrica ed essere reintegrati nei loro posti di lavoro non solo perché è loro sacrosanto diritto ma perché in gioco c’è l’intera sorte della democrazia nei luoghi di lavoro italiani. Per questo la sentenza di oggi è fondamentale. Per questo, quando la Cassazione la avrà resa definitiva, il giorno in cui Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli riprenderanno posto nello stabilimento di Melfi, non sarà esagerato parlare di evento di portata storica.

Francesco Ferrara

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