Riemergere dall’onda lunga del conformismo e della retorica
nazionalista che hanno improntato i commenti post vertice Ue, non è
facile. Eppure bisogna farlo, pena patire troppo dure delusioni quando
le sirene delle magnifiche sorti e progressive delle elite economiche
finanziarie europee avranno finito il loro canto. Se ne sono sentite di
tutte. La contemporaneità dei campionati europei ha impastato i giudizi
politici con metafore calcistiche. Così veniamo a sapere che ai
Tre-Monti si sono sostituiti i Tre-Mario e persino un raffinato
giornalista di lungo corso come Eugenio Scalfari non riesce a evitare di
scadere nell’orrido con il doppio parallelismo Hollande come Cassano,
Monti uguale a Balotelli. Leggere, per credere, i giornali di domenica.
Poi ci ha pensato la nazionale di calcio spagnola e l’apertura non
proprio travolgente dei mercati il lunedì mattina a raffreddare i troppo
facili entusiasmi.
Nel frattempo quasi nessuno si occupa dei testi scaturiti dal
vertice. Invece bisogna farlo perché parole così centellinate avranno un
peso sulla vita di tutti noi per anni a venire. Del resto non è una
lettura così faticosa. Si può benissimo cominciare dal fondo
dell’allegato al documento conclusivo del Consiglio europeo del 29
giugno, pomposamente chiamato “Patto per la crescita e l’occupazione”,
dove si può leggere che “la stabilità finanziaria è un prerequisito
della crescita”. E qui si chiude il sipario su tutte le illusioni e i
facili entusiasmi, compreso quelli di D’Alema che vede la vittoria del
centrosinistra in ogni luogo d’Europa.
Per diversi motivi. Il primo è che non si dovrebbe parlare
genericamente di crescita, ma precisare cosa per essa si intende, quanto
benessere ambientale, sociale, occupazionale e culturale essa dovrebbe
apportare per potere essere misurata positivamente. Ma possiamo
riconoscere che questo è un argomento fin troppo raffinato per una
circostanza così legata alla più cupa e disperata emergenza.
Il secondo motivo è che, anche senza entrare nel merito della qualità
di questa presunta crescita che si vorrebbe favorire, la quantità di
risorse – 130 miliardi di euro – ad essa destinata appare improbabile
nelle modalità di reperimento e comunque di assai modesta entità – solo
l’1% del Reddito Nazionale Lordo della Ue – e di incerta destinazione.
Già questo ridimensiona nella sostanza l’operazione che Hollande voleva
condurre. Sapendo di avere ben pochi margini per cambiare effettivamente
il fiscal compact, il nuovo presidente francese voleva almeno
giustapporvi un consistente programma di crescita e di sviluppo. Ma
quanto ha ottenuto rende priva di rete di protezione la troppo
precipitosa dichiarazione rilasciata a margine del vertice sul fatto
che, seppure non introducendo obblighi di pareggio in Costituzione, farà
di tutto affinchè il Parlamento francese approvi i vincoli di bilancio.
In terzo luogo perché la vera stabilità finanziaria non è stata
raggiunta. L’unica cosa che avrebbe potuto garantirne le condizioni
sarebbe stata la trasformazione della mission della Bce in prestatore in
ultima istanza, come si conviene per una banca federale, la
mutualizzazione del debito attraverso gli eurobonds e, ancor meglio,
l’istituzione dei projectbonds di cui parlava Jacques Delors ormai tanti
anni fa. Niente di tutto questo è avvenuto. La Merkel, da troppi
entusiasti data per perdente nel confronto, su questo punto ha
resistito. La stessa ironia del leader della Spd Gabriel – legata al
fatto che le misure antispread comunque si configurerebbero come
eurobonds mascherati – mi è parsa del tutto fuorviante e un pochino
autolesionista. Infatti il meccanismo adottato prevede un intervento
tutt’altro che illimitato da parte dei nuovi fondi, l’Efsf e l’Esm–
retti da un sistema di governance esemplare per mancanza di trasparenza
democratica – che potranno finanziare direttamente le banche, risolvendo
così il problema, posto da Rajoy, dell’incremento enorme del debito
spagnolo dovuto a un finanziamento che passa attraverso lo stato prima
di raggiungere gli istituti di credito e spezzando il circuito perverso
tra debiti bancari e statali. Ma, per quanto sia evitato l’intervento
della temuta troika (formata dalla Commissione Europea, dalla Banca
Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale) l’intervento non
sarà automatico. Se gli stati vorranno stabilizzare il mercato dei loro
titoli, quindi contenere l’incremento dello spread, dovranno
esplicitamente richiedere l’intervento dei fondi e in questo caso si
troveranno di fronte nuovamente la Bce, decisa, come ha già affermato il
suo presidente Mario Draghi, a imporre una “stretta condizionalità” nel
concederli. Inoltre la quantità di risorse mobilitabile dai fondi sarà
determinata dalla quantità di soldi messi a disposizione dagli stati
membri, fra i quali gli stessi che sono bisognosi d’aiuto. Anche se la
Bce potrà acquistare titoli di stato sia sul mercato secondario che su
quello primario, aggirando così il divieto posto a Maastricht di
finanziare gli stati aderenti alla Unione monetaria, siamo molto lontani
da una illimitata capacità di creazione di credito come si converrebbe
ad una vera banca federale.
A ciò va aggiunto il fatto che, come previsto dal punto 2 del testo
conclusivo di Bruxelles, tra non molto partiranno le lettere ai vari
stati membri, che, rinnovellando la famosa lettera delle Bce al governo
italiano dello scorso agosto, invaderanno le competenze di bilancio dei
singoli paesi.
Come ha correttamente osservato un analista solitamente assai
equilibrato come Marcello de Cecco, i keynesiani hanno perduto un’altra
volta. Va detto non per deprimersi, ma per sapere cosa si ha di fronte:
avvero altri sette anni di vacche magre, almeno. Continua la danza sul
ciglio del burrone e il rischio che qualcuno dei PIIGS ci precipiti
dentro, e con esso tutta l’Europa, aumenta ogni giorno che passa. Anche
per la sinistra si tratta di un’altra occasione perduta. Né i socialisti
francesi né i socialdemocratici tedeschi – ma la contrarietà agli
eurobonds di questi ultimi assieme ai Verdi era già nota da tempo –
hanno giocato il ruolo che più d’uno si attendeva. Al dunque il fiscal
compact con qualche abbellimento viene trangugiato. Syriza è ancora più
sola.
Per quanto ci riguarda, le divisioni e le distanze interne al
centrosinistra si fanno ancora più profonde e aspre. Sospinta dalla
retorica nazionalista e dalla falsificazione sugli esiti reali del
vertice di Bruxelles, torna ad alzarsi il vento di una mini Grosse
Koalition all’italiana. Alla decisa – e abile – mossa di Casini dei
giorni scorsi, fa seguito l’apertura di Fini nei confronti del Pd. Monti
torna a casa da (presunto) vincitore, seppure deprivato della coppa
europea. In più d’uno pensa e qualcuno lo dice : perché cambiarlo? Dal
punto di vista delle classi dirigenti, delle elite europee, il
ragionamento non fa una grinza. Spetta alla sinistra che vuole una reale
alternativa dire di no e costruire una diversa proposta politica a
tutto campo.
Alfonso Gianni
Nessun commento:
Posta un commento