A luglio si terrà il processo di Cassazione per i 10
manifestanti ancora alla sbarra per i fatti accaduti a Genova durante il
G8 del 2001. L’accusa è “devastazione e saccheggio”. Rischiano dagli
otto ai quindici anni di prigione ma intorno a questa vicenda
giudiziaria il silenzio è pressoché totale. Parlare di loro significa
infatti parlare di nuovo di cose scomode, riaccendere i riflettori anche
sugli uomini dello Stato che ebbero responsabilità gravissime per i
fatti di quei giorni, rendendosi colpevoli di una gestione dell’ordine
pubblico indegna dell’ordinamento democratico della Repubblica. Amnesty
International definì i fatti di Genova: “La più grave violazione dei
diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra
mondiale”. Molti di quegli uomini di Stato, già condannati in appello,
saranno sottoposti anche loro dall’11 giugno al giudizio della Corte di
Cassazione. Quella Corte che, a marzo, ha mandato assolto l’allora capo
della polizia Gianni Di Gennaro, sia pur riconoscendo che il blitz delle
forze dell’ordine alla scuola Diaz di Genova, fu “eseguito con
inusitata violenza dai 300 agenti operanti”, in assenza per altro di
“reali gesti di resistenza” da parte dei 93 no-global arrestati e
portati nella caserma Bolzaneto dove, si legge nella sentenza, “subirono
altri atti di prevaricazione”, anche dalla polizia penitenziaria.
Siamo a questo punto, in un Paese come il nostro che non ricorda
niente e mette sotto il tappeto tutto ciò che lo obbligherebbe invece a
ricordare e a cercare spiegazione, forse spesso scomode per la politica,
le istituzioni, gli apparati dello Stato ma salutari per lo stato di
diritto e la democrazia.
Se ripenso all’estate del 2001, ai giorni torridi del G8, così
drammaticamente segnati dalla violazione dei diritti, dalla morte di
Carlo Giuliani, dal sangue dei ragazzi e delle ragazze sparso alla Diaz –
una “macelleria messicana” disse qualcuno – e dalla bestiale violazione
della dignità umana a Bolzaneto, mi torna come prima cosa alla mente,
in automatico, come un segno indelebile non sufficientemente elaborato
dentro di me, il senso di smarrimento che mi colse arrivando a Genova.
Non quel sangue mi viene subito in mente; e neppure l’esperienza
traumatica delle manganellate che subii anch’io, mentre in piazza Manin,
affollata di femministe e attivisti della rete Lilliput, quelli con le
mani dipinte di bianco, esibivo la mia tessera di parlamentare, cercando
vanamente di trattare con i poliziotti partiti alla carica.
Mi torna alla memoria invece la sensazione di vuoto che ebbi mettendo
piede a Genova, all’inizio dei lavori del contro vertice organizzato
dal Social Forum. Arrivai il martedì di quella fatale settimana, mi
sembra di ricordare, nel primo pomeriggio. Martedì 17 luglio. Un vuoto
allucinato, pieno di un silenzio surreale, straniante, che invadeva gli
spazi urbani e rendeva palpabile un’ansia sotterranea, un inquietante
stato di sospensione, come il segnale di un pericolo incombente, l’alt
posto alla frontiera di un territorio nemico.
Genova si presentò ai nostri occhi come lo Stato, il governo, gran
parte della classe politica avevano voluto che si presentasse a chi non
stava al gioco dei Grandi della Terra: una città cintata dentro se
stessa, ostile, nemica. In ghingheri – con i ridicoli siparietti degli
alberi di arancio curati personalmente da Berlusconi – per le autorità e
gli ospiti stranieri; in armi contro chi voleva attrarre l’attenzione
del mondo su insipienze, soprusi, abusi di potere del G8. Club di
privati – era la parola d’ordine del contro vertice – che decideva le
sorti del mondo, distruggendo il pianeta, affamando i popoli.
Ero stata in quei luoghi tante altre volte nella vita e Genova era
per me da sempre una città unica e straordinaria: città del mare e delle
voci, con quell’inconfondibile accento di popolo che non puoi
dimenticare. La città degli scorci urbani arroccati gli uni sugli altri,
per guadagnare spazio verso l’alto; dei carruggi, che si perdono in
meandri misteriosi e parlano di antiche vicende umane. E della
resistenza antifascista, nata a Genova fin dall’inizio dell’ascesa di
Mussolini, e dei moti popolari del 1960, all’epoca di Tambroni, che
impedirono che la città, medaglia d’oro al valor militare, ospitasse il
Vl congresso del Msi, erede senza infingimenti allora del duce.
La costruzione del nemico interno e delle sue propaggini
internazionali avevano accompagnato i preparativi ufficiali del G8, da
subito e poi con furore ideologico crescente all’avvento del nuovo
governo di centrodestra. Preparativi depistanti e ingannatori, per
rendere ostile l’opinione pubblica al movimento no global, più che per
alimentare il dialogo e costruire la mediazione tra autorità pubbliche e
cittadini in lotta contro l’arbitrio di quell’autonominato consorzio
dei Grandi. E preparativi militari più che di ordine pubblico: da stato
di eccezione più che da Paese democratico, con terrificanti previsioni
di morti e feriti da destinare agli ospedali cittadini, per questo
allertati. Quando mi portarono a Galliera e là mi cucirono la ferita
alla testa, sottoponendomi a controlli di ogni tipo, potei meglio
rendermi conto, parlando col personale medico, di quale fosse il clima.
Era il venerdì 20 luglio, la giornata degli inganni deliberati da parte
di chi doveva garantire che l’ordine pubblico non diventasse quello che
divenne e degli scontri furibondi che ne seguirono per ore e ore. Le 15 e
15 più o meno, quando arrivai all’ospedale, e quando, nel pomeriggio
avanzato, mi lasciarono andar via, seppi che a piazza Alimonda era stato
ucciso Carlo Giuliani.
Non mi aspettavo certo rose e fiori, arrivando a Genova, perché i
segnali di uno Stato e di un potere politico incapaci di misurarsi con
l’impeto, la denuncia radicale e le radicali ragioni del grande
movimento no global erano apparsi chiari e minacciosi – quei segnali –
in tutti i convulsi mesi che avevano preparato il vertice: una micidiale
campagna di stampa tesa ad accreditare le tesi più colpevolizzanti
circa la natura e le intenzioni del movimento. Tutti più o meno
terroristi, black bloc invasati, sovversivi senza patria, a dispetto
dell’incessante ostinato lavoro di mediazione, ricerca di
patteggiamenti, assunzione di responsabilità degli esponenti del Social
Forum. E delle migliaia e migliaia di pacifisti, democratici, non
violenti, lavoratori e sindacalisti, donne e ragazzi, che confluirono
nella città ligure l’ultimo giorno, quello che, nella notte, si concluse
col massacro alla Diaz. Trecentomila, sabato 21 alla manifestazione,
nonostante le notizie del giorno prima, la morte di Carlo Giuliani, il
disimpegno politico di troppi.
Contro quella manifestazione, spezzata in due e intrappolata in un
lungomare senza punti di fuga, la polizia si esercitò in tattiche
antisommossa degne di una truppa d’assalto che voglia ristabilire
l’ordine in una città nemica. Un furore da truppa d’assalto che era
nelle cose fin dall’inizio, nella messa a punto dell’ insensato piano di
militarizzazione della città, che già il centrosinistra, nello scorcio
della XIII legislatura aveva avviato e Berlusconi, vittorioso nelle
politiche del 2001, aveva completato. E che aveva avuto la sua prova
generale a Napoli, dove, nel marzo dello stesso anno, una manifestazione
dei no global finì, come scrisse un giudice nella sentenza a carico di
dieci poliziotti, in un forsennato rastrellamento che nessuna
disposizione normativa poteva in alcun modo giustificare.
Non mi aspettavo certo rose e fiori, andando a Genova. Ma la realtà
superò le più nere aspettative, i timori su cui più avevo riflettuto.
Genova era stata allestita come un teatro di guerra, sottratta alla sua
storia, violata nella sua identità, preparata alla punizione finale.
Zona rossa proibita: se rompi la consegna sei un nemico da abbattere.
Città svuotata sprangata recintata assediata. Gli abitanti della zona
limitrofa al lungomare, dove si sarebbero svolti lavori dei forum
tematici del controvertice, convinti ad allontanarsi, i negozi chiusi,
il traffico deviato. I no global presentati come pronti a tutto, tutti
black bloc dal primo all’ultimo, esercitati alla guerriglia urbana,
pronti ad avvelenare i pozzi, le acque del mare, l’aria e la vita. Forse
fu per questo che i black bloc, quelli veri – c’erano anche loro
ovviamente, una minoranza che una diversa gestione dell’ordine pubblico
avrebbe potuto tenere sotto controllo senza troppe difficoltà – furono
lasciati scorrazzare in lungo e i largo. E alimentarono con le loro
tattiche violente il clima da guerriglia urbana senza scampo,
l’atmosfera da guerra civile senza perdono: loro, gli sbirri, gli altri,
i no global. Non a caso doveva finire come finì.
Nella notte del sabato come l’atto finale del dramma – ci fu la
mattanza alla Diaz, preparata come una spedizione punitiva, e poi il
seguito di inganni e depistaggi che a tutti i livelli la polizia mise in
scena da subito, variandone la trama come meglio poteva servire per
giustificare il suo operato. Le variazioni riguardarono anche, non a
caso, la ricostruzione delle responsabilità della catena di comando.
Io ero già partita qualche ora prima, approfittando di un passaggio
in macchina. Volevo proprio farla finita con quella massacrante giornata
durante la quale, in testa un berretto rosso che un verde mi aveva
offerto a riparo della ferita incerottata,mi ero data da fare con altri
volenterosi per aprire varchi di fuga per i manifestanti, riuscendo
anche insperatamente a convincere qua e là qualche poliziotto – più
anziano o meno eccitato – a spostare i blindati messi a bloccare gli
accessi al lungomare ( e viceversa ovviamente). Il tesserino in quel
frangente ebbe qualche effetto “istituzionale”.
Ero al centro stampa del Social Forum, proprio davanti alla Diaz,
quando passarono a prendermi. Non vedevo l’ora di andarmene ed eravamo
ormai molto lontani da Genova quando mi telefonarono per avvertirmi
della mattanza. Mi è rimasto, di quegli ultimi momenti passati davanti
alla scuola, il ricordo di un velivolo della polizia che a bassa quota
continuava a girare ostinatamente sull’edificio. Chiesi a qualcuno dei
presenti: “Ma che vogliono ancora?” “Sono fatti così”, mi rispose il no
global.
Elettra Deiana
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