giovedì 21 giugno 2012

E loro andarono alla Diaz


A luglio si terrà il processo di Cassazione per i 10 manifestanti ancora alla sbarra per i fatti accaduti a Genova durante il G8 del 2001. L’accusa è “devastazione e saccheggio”. Rischiano dagli otto ai quindici anni di prigione ma intorno a questa vicenda giudiziaria il silenzio è pressoché totale. Parlare di loro significa infatti parlare di nuovo di cose scomode, riaccendere i riflettori anche sugli uomini dello Stato che ebbero responsabilità gravissime per i fatti di quei giorni, rendendosi colpevoli di una gestione dell’ordine pubblico indegna dell’ordinamento democratico della Repubblica. Amnesty International definì i fatti di Genova: “La più grave violazione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”. Molti di quegli uomini di Stato, già condannati in appello, saranno sottoposti anche loro dall’11 giugno al giudizio della Corte di Cassazione. Quella Corte che, a marzo, ha mandato assolto l’allora capo della polizia Gianni Di Gennaro, sia pur riconoscendo che il blitz delle forze dell’ordine alla scuola Diaz di Genova, fu “eseguito con inusitata violenza dai 300 agenti operanti”, in assenza per altro di “reali gesti di resistenza” da parte dei 93 no-global arrestati e portati nella caserma Bolzaneto dove, si legge nella sentenza, “subirono altri atti di prevaricazione”, anche dalla polizia penitenziaria.

Siamo a questo punto, in un Paese come il nostro che non ricorda niente e mette sotto il tappeto tutto ciò che lo obbligherebbe invece a ricordare e a cercare spiegazione, forse spesso scomode per la politica, le istituzioni, gli apparati dello Stato ma salutari per lo stato di diritto e la democrazia.
Se ripenso all’estate del 2001, ai giorni torridi del G8, così drammaticamente segnati dalla violazione dei diritti, dalla morte di Carlo Giuliani, dal sangue dei ragazzi e delle ragazze sparso alla Diaz – una “macelleria messicana” disse qualcuno – e dalla bestiale violazione della dignità umana a Bolzaneto, mi torna come prima cosa alla mente, in automatico, come un segno indelebile non sufficientemente elaborato dentro di me, il senso di smarrimento che mi colse arrivando a Genova. Non quel sangue mi viene subito in mente; e neppure l’esperienza traumatica delle manganellate che subii anch’io, mentre in piazza Manin, affollata di femministe e attivisti della rete Lilliput, quelli con le mani dipinte di bianco, esibivo la mia tessera di parlamentare, cercando vanamente di trattare con i poliziotti partiti alla carica.
Mi torna alla memoria invece la sensazione di vuoto che ebbi mettendo piede a Genova, all’inizio dei lavori del contro vertice organizzato dal Social Forum. Arrivai il martedì di quella fatale settimana, mi sembra di ricordare, nel primo pomeriggio. Martedì 17 luglio. Un vuoto allucinato, pieno di un silenzio surreale, straniante, che invadeva gli spazi urbani e rendeva palpabile un’ansia sotterranea, un inquietante stato di sospensione, come il segnale di un pericolo incombente, l’alt posto alla frontiera di un territorio nemico.
Genova si presentò ai nostri occhi come lo Stato, il governo, gran parte della classe politica avevano voluto che si presentasse a chi non stava al gioco dei Grandi della Terra: una città cintata dentro se stessa, ostile, nemica. In ghingheri – con i ridicoli siparietti degli alberi di arancio curati personalmente da Berlusconi – per le autorità e gli ospiti stranieri; in armi contro chi voleva attrarre l’attenzione del mondo su insipienze, soprusi, abusi di potere del G8. Club di privati – era la parola d’ordine del contro vertice – che decideva le sorti del mondo, distruggendo il pianeta, affamando i popoli.
Ero stata in quei luoghi tante altre volte nella vita e Genova era per me da sempre una città unica e straordinaria: città del mare e delle voci, con quell’inconfondibile accento di popolo che non puoi dimenticare. La città degli scorci urbani arroccati gli uni sugli altri, per guadagnare spazio verso l’alto; dei carruggi, che si perdono in meandri misteriosi e parlano di antiche vicende umane. E della resistenza antifascista, nata a Genova fin dall’inizio dell’ascesa di Mussolini, e dei moti popolari del 1960, all’epoca di Tambroni, che impedirono che la città, medaglia d’oro al valor militare, ospitasse il Vl congresso del Msi, erede senza infingimenti allora del duce.
La costruzione del nemico interno e delle sue propaggini internazionali avevano accompagnato i preparativi ufficiali del G8, da subito e poi con furore ideologico crescente all’avvento del nuovo governo di centrodestra. Preparativi depistanti e ingannatori, per rendere ostile l’opinione pubblica al movimento no global, più che per alimentare il dialogo e costruire la mediazione tra autorità pubbliche e cittadini in lotta contro l’arbitrio di quell’autonominato consorzio dei Grandi. E preparativi militari più che di ordine pubblico: da stato di eccezione più che da Paese democratico, con terrificanti previsioni di morti e feriti da destinare agli ospedali cittadini, per questo allertati. Quando mi portarono a Galliera e là mi cucirono la ferita alla testa, sottoponendomi a controlli di ogni tipo, potei meglio rendermi conto, parlando col personale medico, di quale fosse il clima. Era il venerdì 20 luglio, la giornata degli inganni deliberati da parte di chi doveva garantire che l’ordine pubblico non diventasse quello che divenne e degli scontri furibondi che ne seguirono per ore e ore. Le 15 e 15 più o meno, quando arrivai all’ospedale, e quando, nel pomeriggio avanzato, mi lasciarono andar via, seppi che a piazza Alimonda era stato ucciso Carlo Giuliani.
Non mi aspettavo certo rose e fiori, arrivando a Genova, perché i segnali di uno Stato e di un potere politico incapaci di misurarsi con l’impeto, la denuncia radicale e le radicali ragioni del grande movimento no global erano apparsi chiari e minacciosi – quei segnali – in tutti i convulsi mesi che avevano preparato il vertice: una micidiale campagna di stampa tesa ad accreditare le tesi più colpevolizzanti circa la natura e le intenzioni del movimento. Tutti più o meno terroristi, black bloc invasati, sovversivi senza patria, a dispetto dell’incessante ostinato lavoro di mediazione, ricerca di patteggiamenti, assunzione di responsabilità degli esponenti del Social Forum. E delle migliaia e migliaia di pacifisti, democratici, non violenti, lavoratori e sindacalisti, donne e ragazzi, che confluirono nella città ligure l’ultimo giorno, quello che, nella notte, si concluse col massacro alla Diaz. Trecentomila, sabato 21 alla manifestazione, nonostante le notizie del giorno prima, la morte di Carlo Giuliani, il disimpegno politico di troppi.
Contro quella manifestazione, spezzata in due e intrappolata in un lungomare senza punti di fuga, la polizia si esercitò in tattiche antisommossa degne di una truppa d’assalto che voglia ristabilire l’ordine in una città nemica. Un furore da truppa d’assalto che era nelle cose fin dall’inizio, nella messa a punto dell’ insensato piano di militarizzazione della città, che già il centrosinistra, nello scorcio della XIII legislatura aveva avviato e Berlusconi, vittorioso nelle politiche del 2001, aveva completato. E che aveva avuto la sua prova generale a Napoli, dove, nel marzo dello stesso anno, una manifestazione dei no global finì, come scrisse un giudice nella sentenza a carico di dieci poliziotti, in un forsennato rastrellamento che nessuna disposizione normativa poteva in alcun modo giustificare.
Non mi aspettavo certo rose e fiori, andando a Genova. Ma la realtà superò le più nere aspettative, i timori su cui più avevo riflettuto. Genova era stata allestita come un teatro di guerra, sottratta alla sua storia, violata nella sua identità, preparata alla punizione finale. Zona rossa proibita: se rompi la consegna sei un nemico da abbattere.
Città svuotata sprangata recintata assediata. Gli abitanti della zona limitrofa al lungomare, dove si sarebbero svolti lavori dei forum tematici del controvertice, convinti ad allontanarsi, i negozi chiusi, il traffico deviato. I no global presentati come pronti a tutto, tutti black bloc dal primo all’ultimo, esercitati alla guerriglia urbana, pronti ad avvelenare i pozzi, le acque del mare, l’aria e la vita. Forse fu per questo che i black bloc, quelli veri – c’erano anche loro ovviamente, una minoranza che una diversa gestione dell’ordine pubblico avrebbe potuto tenere sotto controllo senza troppe difficoltà – furono lasciati scorrazzare in lungo e i largo. E alimentarono con le loro tattiche violente il clima da guerriglia urbana senza scampo, l’atmosfera da guerra civile senza perdono: loro, gli sbirri, gli altri, i no global. Non a caso doveva finire come finì.
Nella notte del sabato come l’atto finale del dramma – ci fu la mattanza alla Diaz, preparata come una spedizione punitiva, e poi il seguito di inganni e depistaggi che a tutti i livelli la polizia mise in scena da subito, variandone la trama come meglio poteva servire per giustificare il suo operato. Le variazioni riguardarono anche, non a caso, la ricostruzione delle responsabilità della catena di comando.
Io ero già partita qualche ora prima, approfittando di un passaggio in macchina. Volevo proprio farla finita con quella massacrante giornata durante la quale, in testa un berretto rosso che un verde mi aveva offerto a riparo della ferita incerottata,mi ero data da fare con altri volenterosi per aprire varchi di fuga per i manifestanti, riuscendo anche insperatamente a convincere qua e là qualche poliziotto – più anziano o meno eccitato – a spostare i blindati messi a bloccare gli accessi al lungomare ( e viceversa ovviamente). Il tesserino in quel frangente ebbe qualche effetto “istituzionale”.
Ero al centro stampa del Social Forum, proprio davanti alla Diaz, quando passarono a prendermi. Non vedevo l’ora di andarmene ed eravamo ormai molto lontani da Genova quando mi telefonarono per avvertirmi della mattanza. Mi è rimasto, di quegli ultimi momenti passati davanti alla scuola, il ricordo di un velivolo della polizia che a bassa quota continuava a girare ostinatamente sull’edificio. Chiesi a qualcuno dei presenti: “Ma che vogliono ancora?” “Sono fatti così”, mi rispose il no global.

Elettra Deiana

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