Piange il telefono (da intonare come la celeberrima canzone di
Mimmo Modugno). Piange il telefono della Fornero, abituata alle
performance lacrimose, che ha lanciato il suo duro penultimatum
all’amministratore delegato della Fiat. “Marchionne lo sento spesso (e
cosa vi dite, di grazia), mi ha detto che sarebbe andato negli Stati
Uniti (week end lungo si direbbe…). Gli ho dato alcune date per
incontrarci, ma il telefono non è ancora squillato”. Povera Fornero!
Proprio lei. Che con un alzata di sopracciglio stende i sindacati e
lascia sul campo morti e precari.
Proprio lei viene snobbata dall’imprenditore che più ha ispirato la
versione di Elsa, quella dell’agir pubblico contro gli interessi della
maggioranza degli italiani.
Povera Fornero, a parte i titoli a nove
colonne che le dedicano i giornali, in preda al panico pur di
risollevare le fortune del compianto governo dei tecnici, si ritrova ad
essere sempre più la caricatura di se stessa. La ministra inesistente,
come giustamente l’ha definita Luciano Gallino, in buona compagnia di
altri famosi inesistenti, da Passera a Profumo, passando per Ornaghi e
Catania. Ministri a due dimensioni, meglio se catodicamente a favore di
inquadratura. La dimensione del mercato-dio, alla quale ci si inchina in
nome e per conto nostro. E poi la dimensione del proprio ego,
l’assunzione impavida e grave della responsabilità di essere i migliori,
sempre nostro malgrado. Quelli che ci volevano, quelli che non si
capiva perché non fossero stati ancora scoperti, quasi che la politica
fosse un palcoscenico di talent show sul quale finire a spinte e
raccomandazioni. Sempre per il bene nostro.
Ai ministri di Monti, che delle caratteristiche
antropologico-ideologiche precedenti è l’eponimo, da cui la vague
chiamata pomposamente del “montismo”, manca la terza dimensione e, per
chi sa che il mondo ne ha almeno quattro, sfugge addirittura l’esistenza
della quarta. Le altre due dimensioni sono, in primo luogo, quella del
valore generale delle istituzioni, delle istituzioni democratiche e
repubblicane. Bei tempi quando due ministri della Repubblica, Brodolini e
Donat Cattin, un socialista ed un democristiano, amavano ripetere “non
sono il ministro del lavoro, sono il ministro dei lavoratori”.
Sono gli stessi che costruirono la legge 300/70, altrimenti nota, o
famigerata a sentire gli attuali ministri, come Statuto dei lavoratori.
Era il tempo della crescita economica ma anche dei diritti. All’epoca
l’Italia aveva i salari più alti d’Europa e la Fiat era il primo
produttore di auto in Europa. Oggi siamo ai salari da fame e sempre la
Fiat, di Marchionne e dei fantasmi degli Agnelli, perde almeno il doppio
delle altre case automobilistiche, raggiungendo tristi primati, da
negozio ai saldi di fine stagione. Lo stesso Donat Cattin convocava la
Fiat con i carabinieri, anche se Fornero potrebbe forse risponderci che
per acchiappare Marchionne l’americano ci vorrebbe l’FBI.
La cosa che più mi indigna è questa resipiscenza tardiva, questo
risveglio dal “sogno” di Fabbrica Italia, la favoletta che aveva fatto
dormire sonni tranquilli anche al pupo Renzi. E invece aveva ragione la
Fiom! L’incubo, altro che sogno, è partito con il referendum-ricatto di
Pomigliano. Doveva essere unico, irripetibile. Un sacrificio, umano,
sull’altare della produttività da riconquistare. Il governo dell’epoca
plaudì, molti anche di centrosinistra fecero lo stesso. Poi sono
cominciate le discriminazioni, l’estensione del cappio di Pomigliano a
tutte le fabbriche, poi le condanne contro l’azione discriminatoria
dell’azienda, fino allo svelamento dell’inganno coltivato fin
dall’inizio.
Fabbrica Italia non è mai esistita, bastava vedere le richieste di
fondi europei per consentire la dismissione di rami secchi (proprio come
si fece per la metallurgia), che ha visto la netta opposizione della
VolksWagen in primis. La produttività non c’è perché non c’è il
prodotto. E il governo non c’è poiché non c’è uno straccio di politica
industriale. Le uniche leggi fatte sono state quelle che hanno
generalizzato il marchionnismo, dall’articolo 8 della legge Tremonti che
smonta il contratto nazionale, all’abolizione dell’articolo 18 scritto
nella pessima legge sul mercato del lavoro di Fornero.
Insomma, la quarta dimensione mancante è quella del tempo in cui
vivono le persone reali. Il tempo della crisi che abita l’esperienza
quotidiana. Di questo governo abbiamo sempre detto che non ci
convinceva, che stava scavando un solco tra la società e le istituzioni.
Oggi, dopo Alcoa, Sulcis, Ilva e Fiat siamo all’impotenza eretta a
sistema, ridotti a mettere il sale sulla coda all’impresa
multinazionale. Per ritrovare questa dimensione di governo dei processi e
non solo di amministrazione dell’esistente, va ricostruito dalle
fondamenta il senso e la funzione della rappresentanza. Quel senso che
icasticamente raccontavano i “ministri dei lavoratori”.
Gennaro Migliore
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