Ecco il discorso di Nichi all’inaugurazione della 76esima edizione della Fiera del Levante di Bari:
‘Il silenzio del Sud e i rumori del Nord hanno accompagnato anni di
scomposizione del corpo civile e sociale del Paese, lo sfibramento di un
racconto condiviso, di un’ambizione comune, di una missione capace di
dare all’Italia e alla sua collocazione geopolitica la cifra culturale
di un grande progetto euro-mediterraneo. Qui, come altrove nel vecchio
continente, è andato in scena il copione delle piccole patrie, di un
moderno tribalismo alimentato dalla paura della globalizzazione e delle
sue incognite. Il sogno di Altiero Spinelli si è ridotto alla forma
prosaica di una moneta oggi sotto assedio. Ma un Euro senza Europa,
senza una forte soggettività politica continentale, senza istituzioni
democratiche robuste, non ha potuto farsi scudo e ripararci dagli
artigli degli speculatori. La fragilità politica si è presto trasformata
in vulnerabilità economica. La retorica dell’Unione ha lasciato
rapidamente il posto all’egoismo miope degli Stati nazionali e agli
effetti regressivi delle predicazioni nazionalistiche. In questa scena
siamo collocati, qui dobbiamo svolgere la nostra parte.
Certo, stenta a
nascere quella “nuova stagione del dovere” evocata proprio da chi con i
piedi ben piantati sulla terraferma di Puglia cercava di scrutare oltre i
confini del mare, per cominciare ad elaborare una idea più evoluta
delle relazioni tra i popoli e le culture. Da chi proponeva la politica
come antidoto alla barbarie. Oggi viceversa troppo spesso la politica
seppellisce le proprie ambizioni o cercando la scorciatoia dell’urlo
populista o nella gestione elettorale dei localismi, dei corporativismi,
dei conservatorismi, tanto da proporsi talvolta obiettivi illusori e
assai pericolosi: non si tratta di disfare l’euro, bensì di salvare e
rifondare l’Europa, di costruirla non secondo le ricette di un
monetarismo asfittico, sotto dettatura di quella finanza opaca che cerca
di etero-dirigere le istituzioni politiche e che sta divorando come un
cannibale l’economia reale e il mercato, ma di tessere la tela culturale
e istituzionale di un immenso e ricchissimo crocevia di storie di
emancipazione e di libertà: l’Europa che amiamo è quella sgorgata dalle
viscere di guerre e rivoluzioni, quell’idea di convivenza matura fondata
sullo Stato di diritto e sulle libertà individuali, sulla solidarietà e
sul culto dei diritti umani, sul Welfare e sulla civiltà del lavoro.
Noi abbiamo cercato di essere, in questo lembo di Mezzogiorno, un luogo
che si percepiva e si narrava come Euro-mediterraneo, fuori da ogni
tentazione di secessione nella demagogia di una periferia che gonfia il
petto e maledice il diavolo del centralismo. Abbiamo cercato di
ricordare all’intelligenza del Paese, spesso inquinata dai leghismi, che
il Sud è più complesso e più ricco di quanto non dicano le rozze
caricature o i luoghi comuni un po’ razzisti che hanno fatto breccia in
settori significativi della cultura dominante. Il Sud non è un tutto
omogeneo, non è un ciclopico cono d’ombra che risucchia e oscura civismo
e senso dello Stato, non è solo mafia e parassitismo. Abbiamo potuto
costatare quanto pernicioso sia indulgere in questi stereotipi, per poi
avere l’amaro risveglio di un Nord infiltrato in lungo e in largo dai
clan e dalla violenza criminale. C’è un Sud che vuole usare persino la
crisi come occasione per ripensarsi e scommettere sull’innovazione, sul
cambiamento necessario, sul bisogno di scrollarsi di dosso vecchie
mentalità e indolenze culturali. C’è un Sud che sente il dolore sociale,
la fatica di vivere, la domanda persino disperata di lavoro di quelle
giovani generazioni ingabbiate nei circuiti lividi della precarietà, ma
che non chiede elemosine o ammortizzatori sociali: non si può e non si
deve ammortizzare il futuro come se fosse una minaccia, lo si deve
accogliere come una promessa. Ciò significa tornare ad investire
quantitativamente e qualitativamente su formazione, educazione, cultura,
ricerca, recuperando capacità di ascolto delle competenze e delle
passioni di chi vive nella scuola e nell’Università. Nella mia regione
lo abbiamo fatto con risultati straordinari, promuovendo esperienze
d’avanguardia che hanno riguardato ogni ordine e grado degli apparati
formativi. E se capita che il Politecnico di Bari risulti al primo posto
nella classifica delle eccellenze accademiche, non si cancelli questa
notizia dalle cronache. Contro la crisi noi chiediamo politiche
pubbliche di sostegno alle imprese, in un nuovo disegno di politica
industriale che sappia fare i conti con il diritto alla salute e
all’ambiente: sulla scena dell’Ilva non c’è solo Taranto e i suoi
affanni, ma il rendiconto di una lunga storia sociale che riguarda
l’intera nazione. Se il confronto fosse tra industrialismo cieco e
ambientalismo fondamentalista, non si riuscirebbe ad intravvedere alcun
vincitore all’orizzonte: perderebbero tutti, in una tragica
giustapposizione tra lavoro e ambiente. Su questa sfida la Puglia ha
visto l’unità e lo spirito di collaborazione di un’intera classe
dirigente, senza distinzioni tra le coalizioni politiche e con il
contributo prezioso della concertazione con i sindacati e con le forze
sociali. Non posso non sottolinearlo come un fatto straordinario: in
questa nostra regione una contrapposizione elettorale di speciale
veemenza non ci ha impedito di concentrarci, insieme, sul bene della
nostra comunità. Dico grazie ai miei compagni e dico due volte grazie ai
miei avversari. Nel vuoto del legislatore nazionale abbiamo qui, fin
dal 2008, prodotto innovazioni normative di rilievo: per l’abbattimento
delle diossine, del benzopirene, delle polveri sottili, abbiamo imposto,
primi e unici in Italia, un parametro inedito quale quello della
“valutazione di danno sanitario” con cui occorre monitorare le aziende
affinché siano obbligate ad adeguare i propri impianti. Ora tocca
all’Ilva giocare in prima persona la partita decisiva, quella della
vita: la vita di una città che ha diritto di respirare, di lavorare, di
raccontare al mondo non più i propri incubi ma la propria bellezza.
Insomma, l’ecologia non è un congedo dall’economia – questo penso io: ma
è la sfida di una nuova economia che usa gli strumenti dell’innovazione
per coniugare profitto privato e profitto collettivo, i bilanci
aziendali con i bilanci della qualità dell’aria, dell’acqua, del cibo,
della salute. Per questo esprimiamo il nostro dissenso radicale contro
l’autorizzazione delle prospezioni geofisiche nei fondali adriatici e
siamo pronti a tutto per impedire che le Isole Tremiti e la nostra costa
possano conoscere lo sfregio delle trivelle. Noi qui siamo i primi
produttori nazionali di energia da fonti alternative, con 2.186 megawatt
di fotovoltaico, 1.393 megawatt di eolico, 228 megawatt di bioenergie: e
dunque noi non siamo quelli della “sindrome di Nimby”, ma non
intendiamo certo essere una terra da colonizzare o da svendere.
Signore Presidente del Consiglio,
abbiamo attraversato il mare in tempesta della crisi con quei limiti
alla navigazione che talvolta ci hanno fatto rischiare il naufragio.
Parlo dei vincoli del patto di stabilità, che ci impediscono di
trasferire risorse vive, che noi abbiamo, alle imprese, persino per
cantieri avviati e per i loro stati di avanzamento. Parlo dei vuoti
clamorosi di interlocuzione sui nodi della politica trasportistica, in
un Paese che dovrebbe scegliere anche qui il rilancio del trasporto
pubblico, dell’intermodalità, della sostenibilità, piuttosto che
chiudere fabbriche di autobus o cassare vagoni letto e treni a lunga
percorrenza. Parlo dell’assenza di un’idea chiara di quale sia il
panorama industriale che l’Italia sceglie di difendere e consolidare:
che fine farà l’acciaio? E la chimica? E l’automobile dopo la fine di
alcune favole di successo? Che facciamo delle nostre specializzazioni
produttive? Che investimenti sulla rete e la connettività? E
l’agricoltura, in un’Italia che vede spopolarsi l’entroterra, con il
bosco che torna a occupare le campagne abbandonate, con il dissesto
idro-geologico che ci fa vivere nel ciclo dell’emergenza perenne? E quei
settori, dalla moda al salotto, che sono tanta parte del genio
imprenditivo italiano, che orizzonti hanno dinanzi? Non si tratta di
immaginare uno Stato ficcanaso, bensì un pubblico che è capace di
orientare, di stimolare innovazione e internazionalizzazione, di
ossigenare il contesto, di sostenere sistemi di credito che non
strozzino le aziende. Qui in Puglia la crisi non l’abbiamo mai nascosta,
anzi. A partire dal 2008, appena abbiamo sentito l’odore della
burrasca, abbiamo messo in campo strumenti lungimiranti. La prima
manovra anticiclica, con 820 milioni di euro, di sostegno alle nostre
imprese. Poi un programma di sostegno ai lavoratori espulsi dal ciclo
produttivo, con 60 milioni di euro. Poi il “Piano straordinario per il
lavoro” con una dotazione effettiva di 376 milioni di euro. Poi una
manovra costruita con il sistema bancario denominata “Quattro mosse
contro il credit crunch”, con una dotazione di 100 milioni di euro.
Sentiamo anche noi, e duramente, gli effetti della crisi. Tuttavia siamo
incoraggiati da quanto ci dicono gli indicatori economici, dalle foto
statistiche e dagli studi di Bankitalia. La mia regione nel secondo
trimestre 2012 è risultata al primo posto per incremento occupazionale,
con più 55 mila occupati. Sono gli ultimi rilevamenti Istat. Siamo anche
primi in Italia, sempre da fonti Istat, per crescita delle
esportazioni, con più 17,9 % con un fatturato di oltre 8 miliardi di
euro. Siamo la terza regione per incremento del numero di imprese, con
un saldo positivo di 2.600 aziende (è il rapporto di Unioncamere che lo
certifica). In un quinquennio siamo passati dall’ultimo posto della
classifica nazionale al quinto posto per quanto riguarda la nascita di
spin-off, di aziende innovative, di reti di laboratori pubblici. E poi
abbiamo aperto un sentiero sulle politiche culturali mirate ad
impiantare nuovi segmenti di industria nel campo della creatività, della
connettività, del cinema, della musica, delle arti. Abbiamo guadagnato
significativi primati nel campo del turismo, trasformando il nostro
territorio in un brand di qualità, mentre riorganizzavamo la protezione
civile, la difesa del territorio, politiche urbanistiche fondate sulla
riqualificazione delle periferie e sulla rigenerazione urbana. Abbiamo
dimezzato il debito storico dell’ente che governiamo, come certificano
le agenzie di rating. Abbiamo sanato le aziende partecipate dalla
Regione, che oggi offrono bilanci in attivo e patrimoni consolidati.
Abbiamo rinegoziato bond al cardiopalma con una importante banca
d’affari americana, mettendo la Puglia al riparo dai veleni della
finanza tossica. Abbiamo avviato, con i progetti Aurora e Gnosis, i più
avanzati processi di informatizzazione della giustizia: spendendo pochi
milioni di euro, con risultati eccellenti, a fronte del miliardo speso
dal Ministero di Giustizia in 10 anni con risultati davvero scarsi:
perché i nostri prototipi non vengono subito clonati in tutta Italia,
non sarebbe questa una spending revew più efficace di quel taglio di
tribunali (penso al tribunale di Lucera) che può avere effetti negativi
se è solo un taglio e non una seria riorganizzazione del sistema
giudiziario?
Spesso inciampando, andando talvolta fuori strada, magari sbagliando,
noi abbiamo cercato di amare il Sud senza difenderne le brutture, senza
occultarne i vizi antichi e moderni, ma promuovendo le infrastrutture
del benessere sociale per tutti e tutte, alzando la bandiera
dell’accoglienza dei migranti e denunciando la brutalità del caporalato,
edificando una rete diffusa di servizi evoluti – dagli asili nido agli
hospice ai “dopo di noi” per le persone disabili, cominciando a innovare
con la telemedicina e la territorializzazione dell’offerta quella
sanità assediata da affarismo economico e conservatorismo culturale:
dando cioè risposte che oggi rischiano di essere travolte dagli effetti
dei tagli lineari e da quelle politiche di austerità che hanno un segno
vistosamente di classe, che tagliano in basso e non in alto, che
rischiano di essere la medicina che uccide l’ammalato. Questo frammento
d’Europa in cui abitiamo non l’abbiamo usato o abusato come una tribuna
elettorale, lo abbiamo amato. Il nostro sogno, la nostra fatica, è stata
ed è quella di raccontare un Sud con la schiena dritta. C’è una città
bellissima della Puglia, Mesagne, che oggi sintetizza in modo speciale
tutto il dolore e tutta la fierezza che c’è nel nostro cuore: lì
piangiamo una ragazzina, Melissa, il cui quaderno insanguinato è la
metafora di una generazione spesso tradita; lì Carlo, neppure trentenne,
è tornato dalle olimpiadi londinesi con una medaglia d’oro. Alle
generazioni di Carlo e Melissa dobbiamo saper offrire un Paese
migliore’.
Nichi Vendola
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