Nel momento in cui il Presidente della Repubblica e le forze che si
accingevano a sostenerlo in Parlamento hanno convenuto che il Governo
Monti avrebbe guidato il Paese sino al compimento della legislatura, da
soluzione di emergenza e transitoria esso si è trasformato in quel
governo “costituente” chiamato a traghettare il nostro Paese oltre il
mare tempestoso del vero e proprio sfascio della Seconda Repubblica.
Il
tracollo del regime politico, che abbiamo sommariamente definito
“berlusconismo”, in cui per circa un ventennio l’Italia ha vissuto dopo
la fine dei partiti di massa, non è stato solo una crisi politica e
istituzionale. Questo è stato accelerato dalla consapevolezza sempre più
diffusa nell’opinione pubblica e nelle classi dirigenti medesime che
quell’impasto di capitalismo straccione e speculativo, attraversato da
gravissimi fenomeni di corruzione, di connessione con la criminalità
organizzata, e di populismo stava portando l’Italia alla rovina. Che se
era riuscito a consentire al Paese di “tirare a campare” nella fase
ascendente della globalizzazione, fidando sugli spiriti animali di un’
“Italietta” che per anni ha veleggiato, soprattutto nella provincia
profonda del nord lombardo e veneto, tra evasione fiscale, compressione
del costo del lavoro e delocalizzazione all’Est delle attività
imprenditoriali, una volta esauritisi gli effetti della svalutazione
competitiva della lira del 1992 durati sino all’avvento dell’euro, non
aveva le risorse per affrontare la riorganizzazione della divisione
internazionale del lavoro indotta dalla grave crisi che ha investito il
capitalismo mondiale a partire dal 2008.
Le classi dirigenti del
Paese hanno compreso che questa sfida devono affrontarla se non vogliono
perire. Da questo punto di vista il Governo Monti è l’espressione
diretta della borghesia del nostro Paese, di quella che conta, e che
detiene le leve della finanza e di quel poco che resta di grande
capitale industriale. L’impresa con cui si sta misurando Monti e il suo
governo è di portata strategica e ha l’ambizione di gettare le basi di
quella che sarà l’Italia dei prossimi anni, di ridisegnare la struttura
di fondo della nostra economia e della nostra società. E in questo senso
di definire anche le condizioni entro le quali devono cambiare la
democrazia e la politica. Ed è ovvio che lo scenario entro cui questa
impresa si svolge non è solo nazionale ma europeo e mondiale.
Illuminante
da questo punto di vista è stato il viaggio del Presidente del
Consiglio in Estremo Oriente, alla ricerca di nuovi rapporti non solo
tra l’Italia e la Cina ma anche con la Corea e il Giappone e
potenzialmente con l’intera realtà del capitalismo asiatico. Perduto
l’appuntamento con la possibilità di affrontare le sfide della
competizione globale seguendo la strada imboccata dalla Germania da
ormai due decenni, quella dell’innovazione di prodotto nei segmenti alti
della produzione manifatturiera, per Monti l’alternativa che si offre
all’Italia è quella di diventare terreno elettivo di investimenti da
parte delle nuove potenze economiche mondiali nel momento in cui queste
affrontano la sfida dell’espansione nei mercati dei paesi a capitalismo
maturo. L’insistenza di Monti e degli esponenti del suo governo che in
Italia bisogna creare le condizioni per attrarre investimenti stranieri
non è una mera scelta congiunturale ma un’opzione che riguarda il nostro
modello di sviluppo e l’assetto futuro dell’Europa per fronteggiare la
lunga stagnazione che si profila. In questa visione tutto si tiene -
dall’attacco all’articolo 18 al ridisegno delle relazioni industriali
imposto da Marchionne in Fiat – perché, sebbene sia vero che le misure
che tendono a smantellare diritti dei lavoratori e stato sociale non
siano di per sé risolutive per attrarre investimenti dall’estero, nel
loro insieme tuttavia alludono a un modello sociale trasformato idoneo a
una sistematica penetrazione del capitale asiatico e coerente con un
certo modo in cui, attorno ad esso, si possa riorganizzare l’economia
mondiale. Anche l’avvio di una più incisiva azione di contrasto alla
corruzione e all’evasione fiscale che il governo può rivendicare a suo
merito va collocato entro un tale orizzonte strategico.
E’
difficile dire se questa scelta e la prospettiva che la sorregge
costituirà una soluzione efficace, dal punto di vista dell’Italia, per
uscire dalla crisi. Ma per capire come stanno le cose bisogna prendere
sul serio gli argomenti che esponenti della finanza e del governo, e il
codazzo di economisti di formazione neoliberista che li circonda, vanno a
dicendo in tutti i modi. La discussione in atto sulle diverse misure
del governo si concentra sul fatto se le ricette per uscire dalla crisi
siano più o meno adatte allo scopo. Ma in poco o nulla si applica al
modello di sviluppo che viene proposto e sul ruolo che si indica per
l’Italia e per l’Europa nella profonda riorganizzazione della divisione
internazionale del lavoro che la crisi sta imponendo.
Ci si sta
collocando su questo terreno a sinistra per fronteggiare la politica di
Monti e del suo governo? Non mi pare. Il massimo dell’opposizione che si
riesce a esprimere da sinistra riguarda l’inefficacia delle misure
proposte, o la loro iniquità sociale, ma non emerge alcun contrasto al
disegno di politica industriale ed economica che sta dietro. Ma la posta
in gioco è tale che, a sinistra, sarebbe del tutto vano limitare la
propria azione a un inasprimento dell’opposizione politica e sociale,
pur legittima e necessaria, alle misure che il governo assume. Dovrebbe,
infatti, essere del tutto evidente che se l’azione del governo dovesse
fallire, senza che intanto si profilino alternative, i sentimenti di
fondo del Paese ritornerebbero a orientarsi verso le pulsioni tipiche di
una destra populista. A Monti bisogna opporre un’alternativa che abbia
pari spessore strategico e che ponga in campo un altro modello di
sviluppo, e una diversa combinazione tra misure a breve e scelte di
prospettiva per uscire dalla crisi. Insomma non solo di opposizione c’è
bisogno ma di un’effettiva alternativa di governo fondata su un altro
disegno strategico per l’Italia e per l’Europa.
Bisogna inoltre
fare i conti con il fatto che questo governo è stato il protagonista del
superamento del regime berlusconiano e che la sinistra ha mancato
completamente questo appuntamento. Questo dà al governo una base di
consenso nell’opinione pubblica e nell’elettorato che ha sue fondate
ragioni e che può produrre effetti durevoli sia sugli orientamenti
dell’opinione pubblica, sia nei processi di riorganizzazione del sistema
politico e di ricollocazione e evoluzione dei partiti. E’ come se
all’indomani del fascismo la soluzione finale alla sua crisi fosse stata
rappresentata da Badoglio e non dai partiti antifascisti e dalla
Resistenza. La storia della Repubblica, a cominciare dal fatto che non
avremmo questa Costituzione, sarebbe stata diversa. E’ per questa
ragione che, all’indomani della rottura del Pdl da parte di Fini, mi
permisi di avanzare l’ipotesi che proprio alla sinistra toccasse il
compito di proporre una larga coalizione democratica per superare il
regime in formazione attorno a Berlusconi e lo feci, non a caso, dalle
colonne diLiberazione, il giornale della forza politica di
sinistra che sembrava la più lontana da questa impostazione, perché era
essenziale che quella bandiera venisse sollevata da sinistra se si
voleva imprimere un corso virtuoso alla crisi democratica del Paese.
Il
risultato è che invece di una larga coalizione democratica abbiamo una
maggioranza che include anche il partito di Berlusconi, con elementi di
continuità che lo stesso Monti non esita a rivendicare. La borghesia
italiana, quindi, ha risolto da sola i problemi legati all’emergenza
democratica rappresentata dal berlusconismo ed è un merito che il Paese
le riconosce e con cui bisogna fare i conti. Saprà la sinistra non
mancare anche l’appuntamento nel quale il confronto riguarda gli assetti
economici e sociali del futuro, su come l’Italia e l’Europa dovranno
uscire dalla crisi? La posta in gioco è ardua: si tratta non solo di
rappresentare il conflitto ma di produrre egemonia. E perché ciò diventi
possibile, sono necessarie alcune condizioni. La prima è che la
sinistra sia unita e che soprattutto si stabilisca un circolo virtuoso
tra sinistra politica e sinistra sociale. Solo così potrà nascere quella
nuova soggettività politica capace di restituire lo scettro della
sovranità ai cittadini, invocata da tempo da più parti e da ultimo dal
Manifesto per un nuovo soggetto promosso da una parte significativa
dell’intellettualità di sinistra che ha visto in questi anni deluse e
frustrate le sue aspettative da parte della sinistra attuale. La seconda
condizione è che la dimensione europea sia effettivamente praticata
invece che solo retoricamente invocata. E che si lavori, in Europa, al
superamento di quelle “due sinistre” – l’una radicale e l’altra
riformista - che sono state ambedue il principale ostacolo al
rinnovamento strategico e culturale della sinistra europea nel suo
complesso. La terza è costituita dal rilancio di una prospettiva di
centrosinistra su basi totalmente nuove, entro un orizzonte strategico
rinnovato, capace di porre le basi di un compromesso tra capitale e
lavoro finalizzato alla costruzione di un modello di sviluppo europeo
alternativo a quello che oggi il Governo Monti, in totale sintonia con i
governi di destra europei, persegue.
Ma perché questo possa
essere possibile è il lavoro che deve ritornare a farsi partito. E se
questo per avventura non dovesse accadere, nessuna indignazione o
rivolta, e nemmeno nessuna pratica della partecipazione democratica,
potrebbero riempire un vuoto storico che rimarrebbe incolmabile.
Progetto Lavoro, 12, 2012
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