martedì 15 maggio 2012

Opporre a Monti un progetto di pari valore strategico

Nel momento in cui il Presidente della Repubblica e le forze che si accingevano a sostenerlo in Parlamento hanno convenuto che il Governo Monti avrebbe guidato il Paese sino al compimento della legislatura, da soluzione di emergenza e transitoria esso si è trasformato in quel governo “costituente” chiamato a traghettare il nostro Paese oltre il mare tempestoso del vero e proprio sfascio della Seconda Repubblica.
Il tracollo del regime politico, che abbiamo sommariamente definito “berlusconismo”, in cui per circa un ventennio l’Italia ha vissuto dopo la fine dei partiti di massa, non è stato solo una crisi politica e istituzionale. Questo è stato accelerato dalla consapevolezza sempre più diffusa nell’opinione pubblica e nelle classi dirigenti medesime che quell’impasto di capitalismo straccione e speculativo, attraversato da gravissimi fenomeni di corruzione, di connessione con la criminalità organizzata, e di populismo stava portando l’Italia alla rovina. Che se era riuscito a consentire al Paese di “tirare a campare” nella fase ascendente della globalizzazione, fidando sugli spiriti animali di un’ “Italietta” che per anni ha veleggiato, soprattutto nella provincia profonda del nord lombardo e veneto, tra evasione fiscale, compressione del costo del lavoro e delocalizzazione all’Est delle attività imprenditoriali, una volta esauritisi gli effetti della svalutazione competitiva della lira del  1992 durati sino all’avvento dell’euro, non aveva le risorse per affrontare la riorganizzazione della divisione internazionale del lavoro indotta dalla grave crisi che ha investito il capitalismo mondiale a partire dal 2008.
Le classi dirigenti del Paese hanno compreso che questa sfida devono affrontarla se non vogliono perire. Da questo punto di vista il Governo Monti è l’espressione diretta della borghesia del nostro Paese, di quella che conta, e che detiene le leve della finanza e di quel poco che resta di grande capitale industriale. L’impresa con cui si sta misurando Monti e il suo governo è di portata strategica e ha l’ambizione di gettare le basi di quella che sarà l’Italia dei prossimi anni, di ridisegnare la struttura di fondo della nostra economia e della nostra società. E in questo senso di definire anche le condizioni entro le quali devono cambiare la democrazia e la politica. Ed è ovvio che lo scenario entro cui questa impresa si svolge non è solo nazionale ma europeo e mondiale.
Illuminante da questo punto di vista è stato il viaggio del Presidente del Consiglio in Estremo Oriente, alla ricerca di nuovi rapporti non solo tra l’Italia e la Cina ma anche con la Corea e il Giappone e potenzialmente con l’intera realtà del capitalismo asiatico. Perduto l’appuntamento con la possibilità di affrontare le sfide della competizione globale seguendo la strada imboccata dalla Germania da ormai due decenni, quella dell’innovazione di prodotto nei segmenti alti della produzione manifatturiera, per Monti l’alternativa che si offre all’Italia è quella di diventare terreno elettivo di investimenti da parte delle nuove potenze economiche mondiali nel momento in cui queste affrontano la sfida dell’espansione nei mercati dei paesi a capitalismo maturo. L’insistenza di Monti e degli esponenti del suo governo che in Italia bisogna creare le condizioni per attrarre investimenti stranieri non è una mera scelta congiunturale ma un’opzione che riguarda il nostro modello di sviluppo e l’assetto futuro dell’Europa per fronteggiare la lunga stagnazione che si profila. In questa visione tutto si tiene - dall’attacco all’articolo 18 al ridisegno delle relazioni industriali imposto da Marchionne in Fiat – perché, sebbene sia vero che le misure che tendono a smantellare diritti dei lavoratori e stato sociale non siano di per sé risolutive per attrarre  investimenti dall’estero, nel loro insieme tuttavia alludono a un modello sociale trasformato idoneo a una sistematica penetrazione del capitale asiatico e coerente con un certo modo in cui, attorno ad esso, si  possa riorganizzare l’economia mondiale. Anche l’avvio di una più incisiva azione di contrasto alla corruzione e all’evasione fiscale che il governo può rivendicare a suo merito va collocato entro un tale orizzonte strategico.
E’ difficile dire se questa scelta e la prospettiva che la sorregge costituirà una soluzione efficace, dal punto di vista dell’Italia, per uscire dalla crisi. Ma per capire come stanno le cose bisogna prendere sul serio gli argomenti che esponenti della finanza e del governo, e il codazzo di economisti di formazione neoliberista che li circonda, vanno a dicendo in tutti i modi. La discussione in atto sulle diverse misure del governo si concentra sul fatto se le ricette per uscire dalla crisi siano più o meno adatte allo scopo. Ma in poco o nulla si applica al modello di sviluppo che viene proposto e sul ruolo che si indica per l’Italia e per l’Europa nella profonda riorganizzazione della divisione internazionale del lavoro che la crisi sta imponendo.
Ci si sta collocando su questo terreno a sinistra per fronteggiare la politica di Monti e del suo governo? Non mi pare. Il massimo dell’opposizione che si riesce a esprimere da sinistra riguarda l’inefficacia delle misure proposte, o la loro iniquità sociale, ma non emerge alcun contrasto al disegno di politica industriale ed economica che sta dietro. Ma la posta in gioco è tale che, a sinistra, sarebbe del tutto vano limitare la propria azione a un inasprimento dell’opposizione politica e sociale, pur legittima e necessaria, alle misure che il governo assume. Dovrebbe, infatti, essere del tutto evidente che se l’azione del governo dovesse fallire, senza che intanto si profilino alternative, i sentimenti di fondo del Paese ritornerebbero a orientarsi verso le pulsioni tipiche di una destra populista. A Monti bisogna opporre un’alternativa che abbia pari spessore strategico e che ponga in campo un altro modello di sviluppo, e una diversa combinazione tra misure a breve e scelte di prospettiva per uscire dalla crisi. Insomma non solo di opposizione c’è bisogno ma di un’effettiva alternativa di governo fondata su un altro disegno strategico per l’Italia e per l’Europa.
Bisogna inoltre fare i conti con il fatto che questo governo è stato il protagonista del superamento del regime berlusconiano e che la sinistra ha mancato completamente questo appuntamento. Questo dà al governo una base di consenso nell’opinione pubblica e nell’elettorato che ha sue fondate ragioni e che può produrre effetti durevoli sia sugli orientamenti dell’opinione pubblica, sia nei processi di riorganizzazione del sistema politico e di ricollocazione e evoluzione dei partiti. E’ come se all’indomani del fascismo la soluzione finale alla sua crisi fosse stata rappresentata da Badoglio e non dai partiti antifascisti e dalla Resistenza. La storia della Repubblica, a cominciare dal fatto che non avremmo questa Costituzione, sarebbe stata diversa. E’ per questa ragione che, all’indomani della rottura del Pdl da parte di Fini, mi permisi di avanzare l’ipotesi che proprio alla sinistra toccasse il compito di proporre una larga coalizione democratica per superare il regime in formazione attorno a Berlusconi e lo feci, non a caso, dalle colonne diLiberazione, il giornale della forza politica di sinistra che sembrava la più lontana da questa impostazione, perché era essenziale che quella bandiera venisse sollevata da sinistra se si voleva imprimere un corso virtuoso alla crisi democratica del Paese.
 Il risultato è che invece di una larga coalizione democratica abbiamo una maggioranza che include anche il partito di Berlusconi, con elementi di continuità che lo stesso Monti non esita a rivendicare. La borghesia italiana, quindi, ha risolto da sola i problemi legati all’emergenza democratica rappresentata dal berlusconismo ed è un merito che il Paese le riconosce e con cui bisogna fare i conti. Saprà la sinistra non mancare anche l’appuntamento nel quale il confronto riguarda gli assetti economici e sociali del futuro, su come l’Italia e l’Europa dovranno uscire dalla crisi? La posta in gioco è ardua: si tratta non solo di rappresentare il conflitto ma di produrre egemonia. E perché ciò diventi possibile, sono necessarie alcune condizioni. La prima è che la sinistra sia unita e che soprattutto si stabilisca un circolo virtuoso tra sinistra politica e sinistra sociale. Solo così potrà nascere quella nuova soggettività politica capace di restituire lo scettro della sovranità ai cittadini, invocata da tempo da più parti e da ultimo dal Manifesto per un nuovo soggetto promosso da una parte significativa dell’intellettualità di sinistra che ha visto in questi anni deluse e frustrate le sue aspettative da parte della sinistra attuale. La seconda condizione è che la dimensione europea sia effettivamente praticata invece che solo retoricamente invocata. E che si lavori, in Europa, al superamento di quelle “due sinistre” – l’una radicale e l’altra riformista - che sono state ambedue il principale ostacolo al rinnovamento strategico e culturale della sinistra europea nel suo complesso. La terza è costituita dal rilancio di una prospettiva di centrosinistra su basi totalmente nuove, entro un orizzonte strategico rinnovato, capace di porre le basi di un compromesso tra capitale e lavoro finalizzato alla costruzione di un modello di sviluppo europeo alternativo a quello che oggi il Governo Monti, in totale sintonia con i governi di destra europei, persegue.
Ma perché questo possa essere possibile è il lavoro che deve ritornare a farsi partito. E se questo per avventura non dovesse accadere, nessuna indignazione o rivolta, e nemmeno nessuna pratica della partecipazione democratica, potrebbero riempire un vuoto storico che rimarrebbe incolmabile.

Progetto Lavoro, 12, 2012

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